IL MITO DI HITLER

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Le foto storiche di quei tempi

I mitici Hitler e Mussolini

I due movimenti - il fascista e il nazista - avevano in comune la pretesa di essere allo stesso tempo nazionalisti e socialisti. Inoltre entrambi erano «necessitati» alla guerra.
Il nazionalismo, negli anni immediatamente seguenti la prima guerra mondiale, era il sentimento più forte e diffuso pervadente le popolazioni europee, mentre, nel contempo, qualsiasi gruppo che pretendesse essere radicale e popolare, doveva, almeno nominalmente, dichiararsi socialista, onde neutralizzare il richiamo dei partiti marxisti. L'idea di un partito nazionale e socialista esprimeva quindi un'idea di nazione in grado di sviluppare tutte le proprie risorse nella cooperazione e nella compattezza, senza il dissanguamento della lotta di classe.

Il nazionalsocialismo coagulò e indirizzò nella sua lotta un mito negativo, l'ebraismo, considerato la lebbra sociale da cui liberalismo, marxismo e democrazia derivavano. L'ebreo, per i nazisti, era colui che congiurava contro i destini gloriosi del popolo tedesco. Più in particolare, il capitalismo del denaro, espresso dalle potenze alleate vincitrici nel 1918, operava, secondo i nazisti, lo strangolamento della Germania, sia con il trattato di pace di Versailles e sia con le onerose riparazioni imposte; i marxisti e i bolscevichi, dal canto loro, soffocavano dall'interno la nazione poiché pensavano lavorassero per l'Unione Sovietica. L'idealismo nazifascista contrapponeva il servizio alla nazione, la devozione al capo, la disciplina gerarchica, alla libertà, all'eguaglianza, alla ricerca della felicità. Ovviamente la democrazia parlamentare risultava futile, debole e decadente. Ora, essendo una tale politica irrealistica, essa doveva essere sostenuta e supportata da un intuito e una volontà recepite dalla massa come superiori all'intelligenza e al ragionamento.

Nel nazionalsocialismo il mito del popolo e del capo erano incastonati entro una dottrina generale della razza, della relazione tra razza ariana e cultura, e del posto che tale razza aveva avuto ed aveva ancora nella storia della civiltà occidentale. Già da parecchio circolava in Germania il mito dell'arianesimo, e della sua pretesa superiorità. Parallelamente l'antisemitismo si era fatto sentire fin dal tempo di Martin Lutero. Perciò le teorie razziali del nazismo, contenute nel «Mein Kampf» di Hitler, raccoglievano e convogliavano pregiudizi che venivano da lontano. Eccone i postulati fondamentali. Il progresso sociale si realizza attraverso la lotta per la vita, nella quale prevalgono i forti sui deboli. La commistione tra due razze porta alla degenerazione di quella superiore. Le civiltà e le culture superiori sono la creazione di una sola razza.
La razza ariana è la razza creatrice e portatrice di cultura; poi ci sono le razze capaci di adottare la cultura altrui ma non di crearne una propria. Infine c'è la razza distruggitrice della cultura, quella ebraica. In mezzo ci stanno le razze-suddite, ausiliarie della razza superiore ariana. La razza ariana ha diritto di dominare tutte le altre, in quanto, avendo superato la fase dell'autoconservazione, ha trasformato il proprio egoismo primordiale in cura per la comunità.
Le qualità morali preminenti della razza ariana sono il senso del dovere e l'onore, piuttosto che l'intelligenza.

Fu Alfred Rosenberg ad elaborare, in forma di ideologia, la dottrina della razza. Egli reinterpretò la storia come lotta di razze, più specificatamente come lotta della razza ariana contro tutte le altre razze inferiori. Gli ariani, secondo Rosenberg, partendo da un punto del Nord, si diffusero, creando le antiche civiltà dell'Egitto, dell'India, della Persia, della Grecia e di Roma.
Queste culture però decaddero perché si mescolarono con razze inferiori. Comunque, tutte le scienze, le arti, ogni filosofia e le grandi istituzioni politiche furono create dagli ariani. A loro si oppose la razza parassita, quella giudea, da cui scaturirono il marxismo, la democrazia, il capitalismo, la finanza, l'arido intellettualismo e gli ideali effeminati di amore e umiltà. Quanto al Cristianesimo, il buono che c'è in esso riflette ideali ariani, il resto è conseguenza della corruzione giudaica. Sul versante filosofico Rosenberg faceva dipendere tutte le facoltà mentali e morali dalla razza. «L'anima è la razza vista dal di dentro». La verità sarebbe l'esplicitazione e la realizzazione delle facoltà razziali innate, dunque sarebbe «organica» alla razza. A Rosenberg faceva eco il filosofo Martin Heidegger (1889-1976) quando, nel contesto delle dichiarazioni fatte dall'Associazione degli insegnanti nazionalsocialisti a favore di Hitler, affermava: «Verità è la rivelazione di ciò che fa un popolo sicuro, chiaro, forte nell'azione e nel conoscere». La dottrina razziale nazista ebbe gravissimi effetti pratici.
Oltre ad incoraggiare l'aumento della popolazione ariana anche attraverso rapporti sessuali irregolari, produsse la legislazione eugenistica del 1933 (sterilizzazione e sterminio dei malati mentali), e la legislazione antisemita del l935 (in Italia nel 1938). Con quest'ultima s'incominciò con il proibire i matrimoni tra tedeschi ed ebrei e, dopo essere passati attraverso la confisca dei loro beni e l'emarginazione civile, giunse al culmine con la politica di sterminio sistematico e totale, che fece sei milioni di morti in tutta Europa. Quanto all'Italia, l'antisemitismo fu tutt'altro che all'acqua di rose.
Esso tra l'altro coinvolse il mondo scientifico in maniera assai rilevante, una parte del quale elaborò e sottoscrisse il «Manifesto degli scienziati razzisti». Notevole fu poi la collaborazione che gli apparati del regime fascista diedero alle SS naziste per arrestare e convogliare gli ebrei italiani verso i campi di sterminio.
La dottrina razziale e l'antisemitismo contribuirono a consolidare il nazismo, inoltre, perché permise di trasferire odi, timori e risentimenti del popolo verso un «nemico» ben determinato. La paura del comunismo divenne paura del marxismo giudaico; il risentimento contro i datori di lavoro si trasformò in odio verso il capitalismo giudaico; l'insicurezza nazionale fu addebitata alla cospirazione ebraica per il dominio del mondo; l'insicurezza economica divenne odio per la finanza giudaica.
Entro questo contesto l'antisemitismo era un mezzo psicologico per unificare la società tedesca. L'espropriazione dei beni procurava inoltre notevoli benefici al partito e ai suoi sostenitori. La dottrina razziale fornì anche elementi per giustificare l'espansione tedesca verso l'est e il sud, a spese delle popolazioni slave, esistendo comunità ebraiche compatte soprattutto in quelle regioni. E il mito della razza così si salda all'altro mito nazista, quello della terra e dello spazio vitale. Questo si poggiava sul mito secondo cui tutte le conquiste culturali dell'Europa centrale, e anche della Russia prerivoluzionaria, erano opera di minoranze tedesche. Quindi i tedeschi sarebbero stati i padroni naturali di questa regione. In realtà dietro tale mito Hitler giustificava e perseguiva una politica di espansione territoriale di tipo imperialistico. Nel «Mein Kampf» egli sosteneva che l'idea di poter conquistare il mondo con mezzi puramente economici è «una delle più grandi e più terribili illusioni. E' lo stato potente che crea per il mondo industriale la sua successiva prosperità. Non ci può essere vita economica senza la volontà politica della nazione pronta a colpire duro». Dunque, il mito della razza e della terra di fatto sfociavano in un imperialismo sfruttatore. La razza superiore, dominante il cuore dell'Europa (che era anche il cuore del mondo), stabilendo con le altre nazioni rapporti di potenza, avrebbe esteso universalmente il proprio dominio, assegnando a ciascuno dei popoli soggetti la funzione economica e lo status politico più funzionale agli interessi della Germania. Insomma, un sistema geopolitico più somigliante agli antichi imperi orientali che non al sistema degli stati moderni.

Il risultato concreto cui giunse il fascismo italiano con lo stato totale, e il nazionalsocialismo tedesco con i suoi miti, fu il totalitarismo.
Lo stato totale produsse il cittadino totale, nel senso che tutti gli interessi dell'individuo confluirono e si fusero con gli interessi dello stato, cioè del partito. L'uomo si risolse nel cittadino, in altre parole nel fascista e nel nazista. La sua sfera privata fu completamente annullata ed assorbita in quella pubblica. In pratica i governi finirono con il controllare ogni atto e ogni interesse individuale e di gruppo, onde finalizzarli al consolidamento della potenza nazionale. Nulla si sottrasse a precise direttive e regolamentazioni.
Senza il permesso del governo non potevano esistere partiti, sindacati, organizzazioni industriali e commerciali.
£istruzione divenne strumento dei regimi per l'indottrinamento. Il riposo e la ricreazione àmbiti di propaganda e di irregimentazione. Nessun individuo e nessuna organizzazione ebbero più spazi di autonomia.
Tutto fu sotto il controllo politico. Ad ogni fascia d'età fu assegnata una divisa. Le polizie di regime, Ghestapo e Ovra, divennero onnipotenti. Il potere giudiziario fu reso funzionale agli interessi dei partiti unici, la stampa fu di regime o venne costretta alla chiusura.
Di regime fu anche l'arte e la cultura. I partiti fascista e nazista costituirono proprie potenti milizie (SS e Mvsn), ed entrambi gli eserciti regolari entrarono nell'orbita degli interessi del regime. In Italia anche le professioni furono inquadrate in «milizie» (Milizia postale, Milizia ferroviaria, Milizia forestale, eccetera). l'economia divenne economia finalizzata alla guerra, e poi di guerra, quando questa inevitabilmente scoppiò, come ineluttabile e tragica conclusione di un'avventura le cui premesse non potevano portare ad altro che a questa conclusione. Le madri furono spinte a sentirsi orgogliose di generare figli per il cannone.

Nazismo e fascismo costituirono per la Germania, per l'Italia, per l'Europa e per gran parte del mondo una calamità che non portò nemmeno una sia pur minima contropartita positiva. Questo vuoto assordantemente riempito di nulla coinvolse più di un centinaio di milioni di uomini, quando deflagrò sessant'anni fa in un conflitto mondiale (il secondo) le cui ultime ferite si rimarginarono solo qualche anno fa. La fase terminale dell'avventura personale di Hitler e Mussolini fu, poi, in sintonia con la velleitaria megalomania dei personaggi. Hitler, tentò di porsi nella scia delle fascinose e tragiche morti degli eroi della mitologia germanica, ma in pratica finì suicida in una cantina. Mussolini, dal canto suo, concluse tragicamente la sua marcia rivoluzionaria comodamente iniziata in vagone letto (con questo mezzo egli fece la «Marcia su Roma»), con una fuga ignominiosa, travestito da soldato tedesco, come un disertore, vergognosamente incapace di reggere la parte di Duce che egli stesso si era pomposamente assegnata.

Eppure, a dimostrazione che il vuoto è realtà indistruttibile, continuano a circolare tutt'oggi inquietanti suggestioni facenti capo a questi due personaggi. Resta perciò di preoccupante attualità il monito che Francisco Goya, con un suo disegno, lanciò circa duecento anni fa: «Il sonno della ragione genera mostri». E il sonno della ragione si vince con la memoria costante, una memoria che sappia mantenere bene evidente, pur nella pietà che deve accomunare nel ricordo ogni caduto, la linea di demarcazione tra chi lottò per la vita e per la libertà e coloro che invece erano dalla parte della tirannide e della morte.